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Pensionati e separati?

Dalle pagine del Corsera di venerdì scorso 7 Luglio, Maria Laura Rodotà ci informava relativamente agli ultimissimi numeri ISTAT in merito ai divorzi tra persone ultra sessantenni. La giornalista attribuiva questo picco di separazioni principalmente a due ragioni: l’emancipazione per donna (e ci risiamo!) che con il lavoro ha guadagnato l’indipendenza e il Viagra per l’uomo che, con l’aito della miracolosa pillolina blu, pare aver riscoperto le gioie del letto anche a tarda età.
Posto che mio nonno, che è sempre stato un tombeur de femmes fino al suo ultimo giorno e che sua moglie, donna rigorosissima ma con un’emancipazione fatta più di intelligenza che di lavoro, si direbbero alquanto stupiti di codesta riflessione, vorrei tentare una sorta di replica a quanto affermato dalla signora Rodotà pur rispettandone il pensiero. La questione fondamentale sta, a parer mio, nella nuova realtà che uomini e donne si trovano a conoscere una volta finito di timbrare quel cartellino lungo trent’anni di lavoro. Sì, perché la nuova percezione di due giovani pensionati sessantenni (ci sono signore di quell’età che in palestra mi danno una “paga” pazzesca sfoggiando un corpo super tonico ed una resistenza che io non avrò mai), rispetto alle possibilità nel terzo ventennio della loro esistenza, è cosa assai diversa oggi rispetto ai tempi di mia nonna. Innanzitutto i pensionati di oggi sono prevalentemente coloro che hanno trascorso la loro vita lavorando come dipendenti, nel grande mondo del posto fisso. Due settimane di ferie ad Agosto per stare con la famiglia e poco altro. Comunque nulla di paragonabile alla velocità di informazioni, emozioni e distrazioni disponibili oggi nell’era della globalizzazione. 
Arrivata la pensione, introito sicuro per entrambi, ecco che l’uomo riscopre che l’universo femminile è ampiamente interessato al capello brizzolato, e che la donna, incastrato il puzzle figli-lavoro-marito, comincia ad intuire che le signore agée, spesso interessate ad altro oltre che la sola famiglia, hanno ora un bel po’ di tempo a disposizione. La questione fondamentale è che, certi dei denari che ogni mese arrivano sul conto corrente, i pensionati, liberi da impegni lavorativi,  riscoprono un mondo pieno di nuove opportunità. Così ognuno per la sua strada. Ma quella voglia di invecchiare insieme dunque, che fine ha fatto? Sembra restata ferma al capolinea, a quando, invece che decidere di investire sul “noi” si è definita la situazione come la più utile, la più comoda, la più normale (almeno fino ad oggi).
Dunque l’uomo, che non poteva fare a meno della moglie che si occupasse di lui lavando e stirando le camicie e facendo trovare sempre la casa in ordine e un bel pasto pronto in tavola, individua una colf per i suoi bisogni, che con una paga modesta assicura lo stesso risultato della consorte senza le incombenze della vita matrimoniale. 
La donna, tornata ad una vita più quieta rispetto al ciclo veloce della lavatrice organizzativa di ogni giorno, scopre di voler avere di più solo per se stessa senza troppa paura di invecchiare, tanto ci sono il botulino e la chirurgia estetica.
IO: questa la parola chiave, il pensiero fondamentale, risultato di un presupposto individualistico, nella maggior parte dei casi, già a monte. E via a briglie sciolte, al contrario di chi, consapevole di voler affrontare un progetto di vita in due, non ci pensa neanche lontanamente a separarsi, avendo investito così tanto di sè su un progetto così grande. 
Questione di priorità, problema di consapevolezza.

Elogio delle buone maniere di Gillo Dorfles

Torni il bon ton, la forma è sostanza. Questo l’imperante esordio di Gillo Dorfles, uno dei più importanti critici d’arte, filosofi e pittori del nostro secolo, che dalle pagine del Corriere della Sera suggerisce come sia davvero ora di tornare alle buone maniere.
L’articolo, qui riportato per facilitarne la lettura a chi fosse sfuggito, suggerisce alcuni spunti di riflessione e letture interessanti, oltre ovviamente a caustiche definizioni sugli odierni costumi.
Una personalissimo ringraziamento vorrei però indirizzarlo a Lina Sotis, istituzionalmente riconosciuta come la maggiore esperta in materia di buone maniere, che qualche giorno fa mi salutò con i modi più dolci e deliziosi come mai avrei pensato…e vidirò che anche in tempi “baciosi” (cit.) come i nostri, il suo cordiale saluto è statato per me solo fonte di gioia. Buona lettura!
Ho già avuto occasione di accennare su queste colonne, allo spinoso problema del rapporto tra modo di essere, di comportarsi – tra «bon ton» e buone maniere – e convivenza dell’uomo d’oggi.
Non solo, ma come, col mutare e scomparire (si spera) delle «classi sociali» avrebbe dovuto scomparire anche la rilevanza attribuita a certi «privilegi classisti» ormai superati. Purtroppo la situazione è tutt’altro che chiara: sopravvivono non solo certi insensati privilegi, legati prevalentemente a ragioni economiche o politiche; ma esistono, con altrettanta energia, le differenze sociali dovute proprio a quella assenza di educazione, a partire dall’infanzia, che finisce per gravare su tutta l’esistenza dell’individuo. Al punto che, se davvero esistesse un «codice comportamentale» istituzionalizzato, forse i rapporti tra gli uomini sarebbero più facili e meno carichi di ostilità o di incomprensioni reciproche.
Il recente volume di Gabriella Turnaturi «Signore e signori d’Italia». Una storia delle buone maniere, Feltrinelli) è una preziosa guida lungo i pericolosi e accidentati sentieri del «bon ton» e del «comme-il-faut isme» e, partendo dall’analisi dei numerosissimi «galatei» che si sono avvicendati in questo campo, ne analizza tutti i peccati e le virtù, seguendo la storia delle «maniere» nel nostro Paese, citando i ben noti interventi di Donna Clara, Donna Letizia, della ineffabile Irene Brin (degli anni Trenta-Quaranta) fino alle gustosissime prese di posizione della «nostra» caustica Lina Sotis.
Certo la cronistoria dei modelli comportamentali è colma di insidie, eppure – anche senza attribuire una assoluta interdipendenza ai rapporti tra socializzazione e «bon ton» – bisogna riconoscere che alcune modalità di «costume» continuano a essere problematiche, discutibili e persino incresciose. Si rifletta soltanto su un esempio banale come quello del baciamano (e intendo quello salottiero; non certo quello indecoroso dato a Gheddafi o quello doveroso al Santo Padre!). E se questa sorta di bacio è ormai quasi naufragato (se non con sottintesa malizia), che dire di quello ormai costantemente diffuso del reciproco baciarsi sulle guance tra uomo e donna senza nessuna implicazione erotica, ma solo per moda o acquiescienza; mentre purtroppo accade che si debba anche sottostare a sgraditi baci tra uomini soprattutto in Paesi slavi; come del resto, si è spesso soffocati da abbracci maschili, testimonianze di purissima amicizia, ma tutt’altro che ben accetti.
Ma il bacio – non amoroso ma sociale – non è che uno dei tanti esempi di «belle» o «brutte» manifestazioni corporee. Che dire (invece) delle strette di mano eccessive, delle pacche sulla schiena del tutto indesiderate? Per non parlare degli aspetti vistosi di collegialità o di parentela.
L’autrice traccia delle partizioni e delle differenziazioni molto gustose e significative tra il comportamento degli italiani nei diversi periodi dell’ultimo secolo; dai tempi ottocenteschi al fascismo, dal primo dopoguerra a oggi. La presenza e la scomparsa di alcuni modi di essere appare così evidente: la presenza delle «signorine» della educazione di una borghesia appena affermata, il trapasso da una civiltà rurale a quella urbana e soprattutto l’alternarsi di ambizione per la correttezza educativa e invece il disprezzo per un perbenismo ormai «superato» (ma non tanto).
Indubbiamente gli eventi politici hanno avuto (e hanno tuttora e avranno in futuro) una rilevanza notevole: basta riflettere a situazioni recenti: «il craxismo – come scrive Carlo Donolo, citato da Gabriella Turnaturi – propone una miscela di libertinismo e di “law and order” che corrisponde bene ai sentimenti e agli interessi della New class: edonismo di massa, primato dei valori del ceto medio. Al saccheggio dei beni pubblici si è accompagnata un’eversione delle buone maniere, dei principi della civile convivenza e delle più elementari forme di urbanità». Una cosa, comunque è certa: se, a partire dall’asilo, si insegnassero ai bambini – a prescindere da ogni inaccettabile settarismo – le più elementari maniere di comportarsi (non solo le «belle» ma anche le «buone» maniere, a cominciare da come soffiarsi il naso, come non impugnare la forchetta come uno spiedo, non mettere i gomiti sulla tavola e via dicendo) le cose andrebbero meglio, per lo meno non porterebbero a quella discrepanza tra le diverse provenienze familiari e sociali. Ossia tra le persone «comme-il-faut» (ossia che conoscono le buone maniere) e la grande maggioranza di coloro che non le conoscono o non le applicano affatto e di cui dobbiamo purtroppo subirci la presenza ubiquitaria.
Gillo Dorfles